Corporate social responsibility

È difficile non pensare che vi sia una via italiana alla elaborazione del concetto di  responsabilità sociale dell’impresa o quantomeno di una dimensione multipla della stessa, che non sia stato semplice intellettualismo ma abbia conosciuto forme concrete.

L’esperimento olivettiano, nella sua anacronistica eccellenza anticipatoria che ha sfiorato l’utopia, ha cercato, riuscendovi in parte, di coniugare individuo e comunità, materia e spirito, giustizia sociale e iniziativa imprenditoriale, concretezza e cultura, meccanica e creatività.

Se è vero dunque, come scrisse il pontefice Paolo VI, che vi è necessità di testimoni più che di maestri, il modello irrompe come principio ispiratore che travalica il contesto economico, politico e culturale in cui è maturato. Non è probabilmente un caso che il suo progetto imprenditoriale abbia trovato varie forme di estrinsecazione, rispondendo ad una visione dell’organismo impresa ampia e variegata, capace di collocarla all’incrocio di varie prospettive, che oggi si dicono schematicamente degli stakeholder, cioè di tutti coloro che sono portatori di interessi nel rapportarsi all’impresa.

All’interno di un dibattito, quello sulla corporate social responsibility (“CSR”), che ha comunque connotati filosofici o filosofico-etici e che si afferma nella dottrina aziendalistica nordamericana proprio a partire dagli anni 50, l’idea che “la fabbrica possa avere anche un ideale, un destino, una vocazione[1] si afferma anche nell’industria italiana dell’epoca e apre la strada a una cultura di impresa che può essere di guida per la sua attualità.

Vi è da dire infatti che questo modello appare singolarmente moderno non tanto per una concezione dell’impresa con venature etiche che sarebbe successivamente diventata quasi un fondamento ontologico  delle formulazioni sulla responsabilità sociale, quanto per il fatto che la declinazione di questa responsabilità avveniva attraverso idee di efficienza industriale, di organizzazione del lavoro e di radicamento nel territorio che sono concetti strettamente economici.

Alcuni aspetti caratterizzanti di questa visione, che hanno un forte contenuto ispiratore, si ritrovano, attuati od ancora in embrione, nel modello di business perseguito da MAG o quantomeno fanno parte della sua storia, che è contraddistinta da una dose di spontaneismo non infrequente nella realtà italiana.

Il primo aspetto fondamentale è l’intreccio tra responsabilità sociale ed innovazione, un’interdipendenza che non sempre viene colta nei suoi aspetti strutturali per le ricadute economiche – per l’impresa – e sociali – per la collettività. L’innovazione, di prodotto e di processo, è condizione per creare eccellenza e determinare la capacità di competere nei mercati internazionali e si basa necessariamente su di una collaborazione tra impresa ed università e centri di ricerca nel territorio di riferimento. Una misura di questa innovazione è la spesa dedicata alla ricerca e sviluppo, che qualifica settori come quello industriale aeronautico come ad alta intensità di investimento. Ad indicare la considerazione che l’impresa ha del carattere strategico della propria capacità di innovare è poi l’attitudine o la propensione a proteggere il capitale intellettuale generato attraverso forme di tutela giuridica come marchi, brevetti e privative. L’innovatività di impresa si riverbera positivamente sul territorio in cui essa opera, attraverso il coinvolgimento di giovani risorse a cui la stessa può offrire occasioni di formazione e crescita in un contesto aperto alla internazionalizzazione.

Un secondo aspetto riguarda la capacità di affrontare i mercato con un elevato tasso di produttività e con una buona organizzazione del lavoro. Questo paradigma, che nel recente passato ha dato adito ad interpretazioni deteriori nei fenomeni di delocalizzazione industriale, è invece nel significato autentico strettamente connesso all’innovazione. Ad esempio esaltando la responsabilità dell’area tecnica dedita allo sviluppo di nuovi prodotti nella configurazione del costo industriale di questi, indirizzandola alla ricerca di soluzioni tecnologiche idonee alle applicazioni industriali. In altre parole l’innovazione rappresenta una leva efficace per aumentare il valore aggiunto di ogni ora lavorata, in alternativa ad una tattica che miri alla riduzione del costo dell’ora ad esempio mediante il ricorso ad economie cosiddette low-cost.

Questo dualismo investe anche la gestione della cosiddetta supply chain, che per chi come MAG ha compiuto anche scelte importanti di esternalizzazione, diventa occasione per istituire una partnership strategica, la cui efficienza dipende ad esempio da soluzioni a “chilometro zero”, all’interno dei distretti industriali dell’aerospace in cui sono localizzate le unità produttive, integrando e facendo crescere nella filiera produttiva un indotto di eccellenza tecnologica.

Questi passaggi, che possono apparire semplicistici se raffrontati all’dealità metafisica del pensiero olivettiano, ne inquadrano altresì la forte concretezza come pure la sorprendente attualità.

Un ruolo importante riveste poi la politica di allocazione degli utili, che nel caso di MAG sono stati sempre destinati al reinvestimento, contribuendo così al rafforzamento dell’impresa, piuttosto che ad una strategia difensiva dell’azionariato. Il senso moderno, “metastrutturale” dell’ operare in modo “socialmente responsabile” non ha affatto il significato di abdicare all’obiettivo di realizzare profitti e di distribuirli, quanto di distanziarsi dal teorema del primato del valore per l’azionista, che una certa dottrina, anche italiana[2], a partire dalla celebre scuola di Chicago, ha per un certo tempo affermato nella teoria economica.

Tentare quindi una sintesi della social responsibility che esca dalle formulazioni codificate significa anzitutto che l’osservazione sul modo di fare impresa ponga l’accento sul come ciò avviene e come vengono perseguiti gli obiettivi naturali. Poi significa una visione dell’impresa che crea valore non soltanto per gli azionisti bensì “per il maggior numero di persone toccate dalla sua attività[3].


[1] Sett.”Vita” 26.02.2010 Intervista di Riccardo Bonacina al Prof. Giulio Sapelli nel 50° anniversario della nascita di “Adriano Olivetti. Un imprenditore molto poco illuminato e perciò più vero”.

[2] Franco Modigliani, Merton H. Miller, “The Cost of Capital, Corporation Finance, and the Theory of Investment”, in American Economic Review, June 1958.

[3] “La responsabilità sociale dell’impresa. Il Caso Olivetti” Luciano Gallino, in “Parole Chiave” nr. 1 (gennaio – giugno) 2014.